Una presenza eccessiva e generalizzata di sali è riscontrabile generalmente in acque con origini molto profonde o in vicinanza delle coste per effetto di leggere infiltrazioni di acqua marina.

L’acqua assume così un sapore leggermente salato o salmastro, identificabile al palato, e la eccessiva salinità la rende anche inadatta alla maggior parte degli usi, sia domestici sia industriali, per le caratteristiche di aggressività nei confronti dei metalli con conseguenti corrosioni degli impianti. Mentre in altri casi, la concentrazione in eccesso può riguardare solo alcuni dei sali presenti come solfati, fosfati o nitrati rilevabili soltanto ad un’analisi di laboratorio.

Per ottenere la riduzione della salinità si impiegano gli impianti ad osmosi inversa, composti da membrane semipermeabili in grado di erogare acqua con una percentuale di sali ridotta dal 70-98%, mentre l’acqua con la concentrazione salina residua viene scaricata.

Gli impianti sono generalmente costituiti da un’insieme di una o più membrane collegate in serie e/o in parallelo ed alimentate da una pompa e precedute da una serie di apparecchiature di pretrattamento che, proteggendo le membrane dagli inquinanti, ne assicurano le prestazioni allungandone la vita.

Per semplificare, possiamo classificare gli impianti ad osmosi inversa in tre tipologie fondamentali, che si differenziano tra loro per le caratteristiche dell’acqua di alimentazione e, di conseguenza, per le pressioni di esercizio necessarie:

Alta pressione  (50-70 bar) per acqua di mare o salata (con una salinità di 35.000-45.000 mg/1)
Media pressione  (25-28 bar) per acqua salmastra (con una salinità da 2.000 a 6.000 mg/1)
Bassa pressione  (12-14 bar) per acqua dolce (con salinità tino a 1.500-2.000 mg/1)

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